federica marin, stregati dal colore

Ivan Caccavale Storico, critico e curatore d’arte

Sono trascorsi centottant’anni dalla comparsa della fotografia. Era il 1839 quando ne fu annunciata la nascita, malgrado già da prima diversi inventori, all’insaputa l’uno dell’altro, si fossero dedicati ad essa.

Sicuramente è stata una delle principali acquisizioni del XIX secolo, un capitolo innovativo della storia dell’arte, con tutta la criticità legata alla sua esatta collocazione nell’annovero dei generi artistici.

Timide furono le reazioni iniziali e controllati gli entusiasmi; salutata all’inizio prettamente come un progresso tecnico, essa, secondo Peter Galassi, ex conservatore al dipartimento di fotografia del Museum of Modern Art di New York, è, in verità, «una figlia legittima della tradizione pittorica occidentale».


Seguendo l’interessante discorso dello studioso, sebbene già dai tempi della prospettiva lineare gli artisti avessero reputato la visione come l’unico caposaldo per la rappresentazione, solo nel corso dei secoli hanno incominciato a dar vita a tecniche di pittura basate sul meccanismo e sui procedimenti del campo visivo, dell’occhio fisico, non mentale, dell’essere umano.

La sua tesi è volta a dimostrare che la fotografia si è sviluppata a partire da questi cambiamenti avvenuti nelle prospettive artistiche. Nelle sue ricerche, il valido autore ha analizzato dipinti di Constable, Corot ed altri; vi ha visto delle sostanziali novità rispetto al passato, sia a livello compositivo che contenutistico.

Ha notato, ad esempio, che soggetti della tela diventavano scene che i critici dell’epoca ritenevano “umili” o, ancor peggio, “banali”. Si pensi che in questo frangente storico imperava il Romanticismo, con le sue scene epiche ed eroiche di una Natura soverchiante, rispetto alla quale l’essere umano era un nonnulla.

Ma, come insegna la storia dell’arte, c’è bisogno di metabolizzazione affinché un movimento, un genere si affermi. Possiamo parlare di un “tempo di incubazione” necessario e imprescindibile.

Come le nature morte e i paesaggi presero piede e si diffusero, raggiungendo la meritata considerazione come soggetti autonomi, nonostante gli ostativi dissensi iniziali, come l’art pompier guardava in cagnesco alle coeve esposizioni degli Independants, senza tuttavia poterne arginare la carica eversiva e il desiderio forte di affermazione, così la fotografia ha potuto finalmente fregiarsi dei meriti che occorre tributarle, come erede legittima di particolari esigenze di un determinato periodo.


Seguendo le orme di Galassi, risulta interessante soffermarsi sulla definizione di Turner di «quadri rappresentanti parti singole», i cui protagonisti sono specchi d’acqua, stagni, tronchi, porzioni di cielo. Sulla stessa falsariga, Constable, in una lettera a John Fisher, afferma: «Lo scrosciare dell’acqua dagli sbarramenti di un mulino, […] i salici, le vecchie tavole fradice, pali e muri di mattoni coperti di limo, amo queste cose…Sono le scene che hanno fatto di me un pittore (e di ciò sono grato)».


Il dipinto come porzione di un tutto era un concetto molto diffuso nell’arte del XIX sec. Lo testimonia il gran numero di vedute, ravvicinate e con diverse inquadrature, tipiche di Constable, de Valenciennes, Købke e tanti altri. Chiara era la consapevolezza che l’interesse artistico per soggetti ritenuti di poco conto richiedesse un nuovo linguaggio. Il valore dell’artista, in lavori di siffatta concezione, stava nelle variazioni di luce prese in considerazione, nel taglio dell’inquadratura, nel punto di vista adottato.

Finalmente le opere, prodotte in base al sempre più impellente spirito di immediatezza, venivano a dipendere, come anticipato, dall’occhio e non dalla mente. Se per Baudelaire la fotografia non poteva essere considerata una forma d’arte, poiché priva di un requisito per lui fondamentale, l’immaginazione, il segno per eccellenza dell’artista e del suo intervento, in realtà si può affermare che fu proprio essa ad orientare ed influenzare la pittura, in un momento storico, in cui, come si è detto, si stavano apprezzando sempre di più le qualità della percezione, assurta a vero e proprio canone di produzione.

Sin dalla sua origine, anche quando la fotografia era piegata ai meri fini di registrazione, i risultati ottenuti non coincidevano con gli intenti prefissati: la luce, ad esempio, poteva influire molto sulla qualità, alterando le caratteristiche visibili dall’occhio umano. Come notato da molti critici, il mezzo fotografico non immortalava la realtà contingente inquadrata dall’obiettivo, ma il suo aspetto visibile, dipendente da un determinato angolo visuale, in uno specifico contesto spazio-temporale.


Una dissertazione del genere introduce nella maniera che merita la figura di Federica Marin, convinta erede delle potenzialità e della portata artistica della fotografia. Sulla scia della valida tesi del Galassi circa l’influenza della fotografia per quel determinato genere pittorico che prendeva in considerazione una parte del tutto (in riferimento al paesaggio naturale), l’artista indugia su scorci, mettendone in evidenza i dettagli, sulle orme di Marina Ballo Charmet.

Interessante è anche l’attenzione rivolta al potere astraente dei suoi scatti; abstrahere, ovvero tirar fuori. E la Marin estrapola dalle sue foto quel colore insito in esse, quelle cromie potenziali che fanno parte dei meccanismi tecnici dei procedimenti fotografici, li fa emergere in superficie e li offre alla visione dei suoi fruitori. In tal modo, il suo repertorio, frutto di un senso estetico ricercato e raffinato, rompe quel cliché fortemente radicato di fotografia come oggettività e registrazione, sulla cui erroneità si è disquisito sopra, zoccolo duro dei dissensi in riferimento ad essa.


Si è di fronte ad un’esegeta della materia, alla quale la profonda conoscenza del settore consente un proficuo e disinvolto raggio d’azione. Ecco quindi che quella palette cromatica contenuta in nuce negli scatti eseguiti viene fuori grazie all’intervento attivo dell’artista sugli stessi.

È un dialogo intimo, profondo e complesso tra la donna e la Natura: identificandosi in determinati lacerti di paesaggio, la fotografa ne penetra l’essenza, secondo un complesso rapporto panico. Immergendosi a pieno nell’ambiente naturale, l’autrice si lascia pervadere da esso e ne veicola i contenuti acquisiti; ma non si è di fronte ad una semplice medium (il che implicherebbe una mera funzione di mezzo), bensì ad una narratrice sapiente, che comunica con causae cognitio ciò che ha esperito, ciò cui ha preso parte, con tutto il bagaglio lirico ed emozionale annesso

Profondamente attaccata alla sua terra, ella esplora ed indaga con viva curiosità quella fascia di territorio tra il Friuli – Venezia Giulia e la Slovenia, il Carso, un unicum della morfologia geologica europea e terrestre. Esso, composto da rocce calcaree molto solubili e quindi facilmente modellate dall’acqua delle precipitazioni, offre in tal senso terreno fertile all’attività della fotografa.

Qui le gocce di pioggia riescono a sciogliere la roccia su cui cadono e scavano dei solchi, talvolta molto profondi: sono gli agenti atmosferici gli abili scultori di queste forme millenarie. Ecco quindi le doline, Federica Marin si immerge in siffatto ambiente, per carpirne la Bellezza e cristallizzarla, a suo modo, nelle opere facenti capo alla sua persona.

Nel ciclo “Energia”, inedito, ella dirige la composizione con padronanza, ricercando e ricreando suggestive atmosfere. Fra stalattiti e stalagmiti, tra emersioni e sospensioni, dominano la scena caleidoscopiche accensioni luminose. A primo impatto astratte, esse sono in realtà parti reali di quel paesaggio, sapientemente trattate dal Maestro analizzato in sede. Tali lavori non solo trasferiscono nel campo fotografico termini ed effetti tipici del mondo pittorico, ma dimostrano, altresì, quanto siano labili i confini tra astratto e figurativo, in realtà immanenti l’uno nell’altro. La vibrante carica di queste cromie ben si confà ad ambienti plasmati dall’acqua, senza la quale la vita sarebbe inconcepibile sul pianeta terra. In lande del genere la fantasia dell’osservatore, pronto a meravigliarsi e ad interagire con quella materia primordiale di forme informi, disegna sparute sagome antropomorfe e zoomorfe, in un cammino iniziatico verso un mondo “altro”. Nel caso qui
depressioni a forma di imbuto che possono addirittura congiungersi per via della continua azione dell’acqua. Tra esse, come tormaline blu, appaiono
ex abrupto specchi d’acqua e laghetti nei quali spiccano piccoli rilievi di roccia più dura e non dissolta.

nel caso Analizzato, l’indefinito serve come pungolo e stimolo alla messa in moto dell’immaginazione e dell’elemento poetico. Scenario simile si riscontra in “Mondo sommerso”, anch’esso legato all’elemento acqua. Immergersi in questi flutti è come andare in avanscoperta nei meandri della mente umana, tra pensieri reconditi e creature immaginifiche e chimeriche. Superato il sottile confine tra reale e immaginario, si entra a far parte di un gioco le cui regole sono affidate all’individualità del singolo: come affermava David Hume, “la bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla ed ogni mente percepisce una diversa bellezza”.

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Riccardo Giorgi Valentina Roma