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”Colorful Autumn”Art Encounters di Sonia Vecchio e Claudio Alicandri


 

Foto di Emilia Pennacchio
Testo della critica D’Arte Silvia Filippi

Nella storia dell’umanità, fin dagli albori, il termine diverso è fonte di timore e pregiudizio, superato dalla conoscenza dell’altro e dall’apprendimento delle cose. Nonostante ciò, nei tempi la percezione di un disagio dinanzi alle varie diversità, di genere, di appartenenza etnica, di pensiero, di religione, di estrazione sociale, fisica magari dovuta a disabilità, è rimasta ed ancora oggi, complice anche la proprietà ingannatoria e dissumulatoria del linguaggio, persiste.

L’arte nei vari contesti epocali ha dato forma alle inquietudini dell’uomo sull’argomento, inserendo spesso elementi di riflessione con la finalità di allargare gli orizzonti e facilitare l’accettazione dell’ignoto che, una volta riconosciuto, diventa familiare. Vale la pena citare una splendida opera di Giovanni Bellini, Predica di San Marco in Alessandria d’Egitto, ove è raffigurato San Marco orante ad una folla ricca di diversità culturali e religiose, ove spiccano donne coperte da un velo integrale bianco, turchi, dignitari veneziani e animali esotici con una magnifica architettura mamelucca, anziché ottomana, a fare da sfondo alla scena. Più avanti, Paul Gauguin con il suo temperamento d’artista ha spinto la percezione visiva e concettuale del diverso oltre i limiti del suo tempo, dando spazio nelle sue tele ai paesaggi incantati di Tahiti tradotti in forme e colori puri, avvicinando usanze e tradizioni distanti geograficamente e culturalmente dall’Occidente, in un momento storico nel quale la visione di un mondo arcaico, legato alla Terra Madre, sembrava anacronistica per l’avvento dell’era industriale. Una profezia avverata quella di Gauguin, impressa nel distacco dalla realtà a beneficio di un virtuale che viviamo oggi, ostaggi di modelli precostituiti all’interno di rigidi sistemi di classificazione con l’illusione di scegliere in una finta diversità, costruita dalla proposta pubblicitaria. Fortunatamente l’arte, per sua inclinazione riesce ancora a sfuggire alla marchiatura, e ci offre il passpartout per oltrepassare i tanti vincoli culturali che imprigionano l’individuo moderno, per provare a ristabilire il perduto legame tra me e l’altro da Sé.

Non a caso uno degli obiettivi di Colorful Autumn è mappare itinerari di ricongiunzione tra persone appartenenti a mondi diversi che nel rito eucaristico dell’arte, ovvero nello scambio di visioni a confronto, si riscoprono membri della medesima comunità, abbandonando inutili preconcetti e stereotipi largamente diffusi, laddove nella propria diversità ognuno contribuisce all’arricchimento e alla crescita dell’interlocutore con il quale dialoga.

La scelta delle opere e degli artisti rispecchia l’idea progettuale degli organizzatori, nonché le intenzioni della sede ospitante, l’Ufficio culturale dell’Ambasciata della Repubblica Araba d’Egitto, ossia rendere visibile la rete sottile di relazioni, dinamiche ed esperienze che coesistono ed agiscono nel quotidiano e mettere in campo antidoti contro il rischio di estinzione della diversità culturale. L’allarme è serio ed è lanciato da alcuni studiosi di Stanford, i quali affermano la necessità di tutelare la diversità culturale, parimenti alla biodiversità ossia la conservazione delle specie in natura, perché se la perdiamo è in pericolo non solo il Pianeta ma la vita stessa e gli artisti ne sono coscienti e le loro espressioni, raccolte nelle sale espositive, sono come le tessere di un mosaico che aprono porte da cui entrare in mondi alternativi, sovrapposti, discordanti, contraddittori, affini, rilassanti, nei quali sperimentare la modalità del contatto con il diverso in noi e stabilire una relazione empatica che supera la diffidenza e agevola la caduta delle difese per farci acquisire consapevolezza sul fatto che il nostro mondo, la scala di valori alla base del nostro modo di vivere è, talvolta, il risultato di una manipolazione culturale usata per rendere invisibile l’autenticità delle cose. Il gioco della mostra consiste nel rifuggire i consueti punti di riferimenti e nel lasciarsi catturare lo sguardo dall’energia dei colori e della luce, bagnarsi dalla sensibilità di tocchi leggeri e distese tonali in oscillazione tra incantesimo e presagio. Di camminare nella foresta di simboli di Baudelaire ed incontrare silenziose sculture che nell’alternarsi del bianco e nero, interrogano sulla questione attuale del come procedere, perché siamo un’umanità al bivio. Possiamo scegliere di scendere negli abissi della mente, sondare le dinamiche psicologiche e risvegliarci nel bagliore di un volto per inseguire le trasformazioni del corpo, fino all’evanescenza del mito americano che nella lenta dissolvenza della posa di Marylin, restituisce il vuoto esistenziale prodotto dalla società dell’immagine con l’avanzare del pensiero dominante, nemico della diversità di pensiero e culturale. E poi motivo di interesse la maestria di alcuni nell’aggiornare tecniche antiche, come la pittura su vetro per riconnettere la tradizione con il presente attraverso una prova di sapiente manualità e maestria di esecuzione. È infatti noto che già nell’Egitto dei Faraoni, come nella Roma Imperiale, era in uso rivestire le finestre con vetri, talvolta policromi e nel mondo islamico l’arte delle vetrate si univa a quella minuziosa degli stucchi: fu proprio la cultura islamica a diffondere quest’arte in Europa, trasformando la pittura su vetrata da tecnica decorativa a figurata.

Le opere disegnano nello spazio una nuova iconografia della diversità esaminata mediante piani di significato e di comprensione che si intrecciano intrecciano e rincorrono sollecitando il riguardante a farsi risucchiare dalle immagini come dall’obiettivo del fotografo, ad assumere un punto di vista diverso dal consueto a riappropriarsi della curiosità del conoscere, di indagare una venatura, un segno, un frame capace di modificare una credenza. È un po’ come quando andiamo in vacanza e si fotografano gli angoli meno battuti, magari chiedendosi chi vi abita lì, qual’è la storia del luogo, le sue mutazioni, quante e quali storie diverse dalle nostre ma, alla fine, così simili da rassicurarci come l’approdo in un Nirvana, nel giardino incantato perché incontrarsi e riconoscersi amplia la nostra facoltà di percepire ed aiuta a guardarci nel profondo donandoci benessere. L’autunno è una fase di elaborazione interiore, gli alberi si spogliano, ma è solo un processo di rinnovamento, è un meccanismo naturale ma spesso noi rifiutiamo di spostarci da una zona confort di sicurezza, esitiamo a fare quel passo in avanti e ci perdiamo lo spettacolo intorno a noi, l’apparire di un viso in una foglia che rappresenta la perfezione del Cosmo, racchiusa nella trama segnica di una figura o e nei ricordi di infanzia, nella memoria di un luogo specchio di “quell’energia vibrazionale che tutto regola, determina e uniforma anche sulla Terra”.

Il messaggio degli artisti è a considerarci note sul pentagramma dell’esistenza, perfetti nelle imperfezioni ovvero nella diversità. Solo in quel momento magico la meraviglia si palesa ai nostri occhi, ci appare in un mazzo di fiori e grida al cuore che la speranza di una felicità da riconquistare nella lezione dei grandi non è preclusa, anzi è sufficiente saper guardare sotto il colore della pelle, nell’azzurro di un anfratto, nella luce delle mura accarezzate dal tempo, nel contraltare della tumultuosa esposizione di case e palazzi, tra i cui interstizi filtra l’umano.
(Silvia Filippi)


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